“Questa mostra ruota attorno al “grido interiore” di Munch, al suo saper costruire, attraverso blocchi di colore uniformi e prospettive discordanti, lo scenario per condividere le sue esperienze emotive e sensoriali: un processo creativo che sintetizza ciò che l’artista ha osservato, quello che ricorda e quanto ha caricato di emozioni”. Gli organizzatori della mostra Munch, Il grido interiore (Palazzo Reale di Milano, fino al 26 gennaio 2025) sottolineano in questo modo il nodo centrale dell’operazione che vede il grande pittore norvegese tornare a Milano con una mostra monografica dopo quarant’anni.
A prescindere dall’elenco di opere che in una recensione si possono nominare per la loro assenza o presenza (la qualità in mostra è costante e alta), sempre abbia ancora senso farlo, visto come sono malridotte la comunicazione e la cronaca artistica sottoposte alle necessità dei social e dei selfie, è chiaro e riuscito il tentativo della curatrice Patricia G. Berman di delineare la figura di un gigante, capace di leggere nell’animo umano e fra le sue vicissitudini, iscrivendosi nell’albo di quegli artisti che hanno scandagliato nel profondo il baratro della propria esistenza, che è esistenza collettiva.
Edvard Munch (1863 – 1944) indaga le possibilità della vita, il frammento di tempo che distacca l’amare dal morire, e il morire dall’amare; e queste possibilità non comportano per lui altro che una profonda angoscia (kierkegardiana). Ecco: amore, morte e angoscia sono i tre temi fondamentali permeanti la sua intera carriera e che si dispiegano nel Fregio della vita, l’installazione temporanea che accostando singole opere come tessere di un progetto unitario esprime “i dolori e le gioie di ciascun uomo, nella vita di tutti i giorni, visti da vicino”; insomma una specie di immaginifica sinfonia in cui testimoniare la semina e la germinazione dell’amore, il suo fiorire e sfiorire lasciando di fatto la sola angoscia e l’ineluttabile morte. La serie via via variata, è proposta in origine alla Secessione di Berlino del 1902 da Cassirer (insieme ad altri capolavori ad olio fuori tema), e comprende motivi ormai iconici come Il Bacio, Madonna, Vampiro, Malinconia, Angoscia, L’Urlo, Morte nella stanza della malata e Sul letto di morte, alcuni dei quali sparsi nel percorso espositivo milanese (nella loro variante incisoria quando non è presente il dipinto).
Con cento opere, Munch, Il grido interiore è suddivisa in una decina di sezioni tematiche, Allenare l’occhio, Fantasmi, Quando i corpi si incontrano e si separano, Tulla Larsen, Munch in Italia e L’universo invisibile, evidenziando per nuclei omogenei di soggetto alcune caratteristiche salienti, benché è abbastanza chiaro che l’autore abbia lavorato tutta la vita per rappresentare un’unica magnum opus.
D’altronde una sua prerogativa è d’appropriarsi di sistemi linguistici differenti per trarne l’essenziale: dall’Impressionismo di Seurat (Dal viale Karl Johan, 1889; All’aria aperta, 1891), alla lezione di Gauguin e dei suoi seguaci, cui però manca la pari tensione espressiva colma di inquietudini e silenzi di morte, passando per l’immaginario figurale di Rodin, fino al clima simbolista mediato da Böcklin e Klinger, poi dentro al cuore della Secessione tedesca anticipando o ispirando le generazioni successive degli espressionisti (non solo).
Gli organizzatori della mostra Munch, Il grido interiore (Palazzo Reale di Milano, fino al 26 gennaio 2025) sottolineano in questo modo il nodo centrale dell’operazione che vede il grande pittore norvegese tornare a Milano con una mostra monografica dopo quarant’anni, anche allora svoltasi in due tappe, anticipando la sede romana (Palazzo Bonaparte in piazza Venezia, dal 18 febbraio al 2 giugno 2025).
A prescindere dall’elenco di opere che in una recensione si possono nominare per la loro assenza o presenza (la qualità in mostra è costante e alta), sempre abbia ancora senso farlo, visto come sono malridotte la comunicazione e la cronaca artistica sottoposte alle necessità dei social e dei selfie, è chiaro e riuscito il tentativo della curatrice Patricia G. Berman di delineare la figura di un gigante, capace di leggere nell’animo umano e fra le sue vicissitudini, iscrivendosi nell’albo di quegli artisti che hanno scandagliato nel profondo il baratro della propria esistenza, che è esistenza collettiva.
Forse un po’ troppo assecondando l’abitudine di rendere il percorso didascalico e “divulgativo” per il pubblico dei grandi eventi (ma anche dei piccoli), così che molti pascolano per le sale più intenti a leggere i cartelli e seguire le guide auricolari che non a fare quello per cui tutti saremmo chiamati: guardare i quadri.
Edvard Munch (1863 – 1944) indaga le possibilità della vita, il frammento di tempo che distacca l’amare dal morire, e il morire dall’amare; e queste possibilità non comportano per lui altro che una profonda angoscia (kierkegardiana). Ecco: amore, morte e angoscia sono i tre temi fondamentali permeanti la sua intera carriera e che si dispiegano nel Fregio della vita, l’installazione temporanea che accostando singole opere come tessere di un progetto unitario esprime “i dolori e le gioie di ciascun uomo, nella vita di tutti i giorni, visti da vicino”; insomma una specie di immaginifica sinfonia in cui testimoniare la semina e la germinazione dell’amore, il suo fiorire e sfiorire lasciando di fatto la sola angoscia e l’ineluttabile morte.
La serie via via variata, è proposta in origine alla Secessione di Berlino del 1902 da Cassirer (insieme ad altri capolavori ad olio fuori tema), e comprende motivi ormai iconici come Il Bacio, Madonna, Vampiro, Malinconia, Angoscia, L’Urlo, Morte nella stanza della malata e Sul letto di morte, alcuni dei quali sparsi nel percorso espositivo milanese (nella loro variante incisoria quando non è presente il dipinto).
Con cento opere, Munch, Il grido interiore è suddivisa in una decina di sezioni tematiche, Allenare l’occhio, Fantasmi, Quando i corpi si incontrano e si separano, Tulla Larsen, Munch in Italia e L’universo invisibile, evidenziando per nuclei omogenei di soggetto alcune caratteristiche salienti, benché è abbastanza chiaro che l’autore abbia lavorato tutta la vita per rappresentare un’unica magnum opus.
D’altronde una sua prerogativa è d’appropriarsi di sistemi linguistici differenti per trarne l’essenziale: dall’Impressionismo di Seurat (Dal viale Karl Johan, 1889; All’aria aperta, 1891), alla lezione di Gauguin e dei suoi seguaci, cui però manca la pari tensione espressiva colma di inquietudini e silenzi di morte, passando per l’immaginario figurale di Rodin, fino al clima simbolista mediato da Böcklin e Klinger, poi dentro al cuore della Secessione tedesca anticipando o ispirando le generazioni successive degli espressionisti (non solo).
Maggiori informazioni sul sito di Palazzo Reale.
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